Pubblicato da: zoris | 09/07/2023

Il naufragio di Ulisse

Il professor Mauro Bonazzi ha pubblicato un interessante libro (Il naufragio di Ulisse, Einaudi) nel quale mette a confronto il temerario viaggio di Ulisse, come raccontato nel XXVI canto dell’Inferno, e quello di Dante che culmina nel Paradiso al cospetto di Dio.

Malgrado l’esito infausto del viaggio, Dante non condanna Ulisse per aver voluto oltrepassare le colonne d’Ercole: egli era comunque stato spinto dal desiderio di seguir virtute e canoscenza.

Del resto Dante inizia il suo Convivio facendo sua la felice intuizione di Aristotele: tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere. Anche Cicerone, osserva Bonazzi, nel trattato Sui fini del bene e del male fa sua la tesi di Aristotele nell’Etica nicomachea che solo attraverso la conoscenza si può raggiungere la felicità.

Ma è giusto o no porre dei limiti alla ricerca della conoscenza? Sembrerebbe che il sommo poeta accetti, da credente, che la nostra ragione debba fermarsi davanti al mistero della fede.

Ma io ne dubito. Vediamo l’episodio in cui Dante non vede l’ombra di Virgilio (quand’io vidi/solo dinanzi a me la terra oscura, Purg. III, 20-21): il poeta vorrebbe la spiegazione del fenomeno ma Virgilio fa il teologo e lo ammonisce (Purg. III, 34-39):

Matto è chi spera che nostra ragione
possa trascorrer la infinita via
che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia;

ché, se potuto aveste veder tutto,

mestier non era parturir Maria.

Sembrerebbe che Dante accetti che vengano posti limiti al desiderio di conoscenza. Ma è proprio così? Queste frasi Dante le fa dire da Virgilio e poi osserva che alla fine del discorso il suo maestro rimase turbato. Ma forse era lo stesso Dante a essere turbato perché non del tutto convinto: desiderava una spiegazione e si è ritrovato con un sermone catechistico.

Anche in seguito (Purg. VI, 28-48) Dante è dubbioso in merito alla dottrina dell’efficacia delle preghiere di suffragio e ricorda quanto il suo maestro aveva scritto: Abbandona la speranza di piegare i decreti degli dei con le preghiere (Eneide, VI, 376). Virgilio gli spiega la dottrina del suffragio, ma Dante non mi sembra convinto: egli capisce che indirettamente tale dottrina mette in dubbio la giustizia divina, perché Dio valuterebbe le raccomandazioni più che il merito (v. anche Purg. III, 145: ché qui per quei di là molto s’avanza).

Dante era credente, ma un credente pensante e quindi aperto al dubbio.

Come ha detto il cardinale Martini: la differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa.

E torniamo ora al dilemma: È giusto o no porre limiti alla ricerca della conoscenza? E chi deciderà cosa sia bene e cosa sia male?

Affidarci alle religioni non sembra abbia dato buoni risultati: l’Inquisizione ha minacciato il rogo a Galileo se egli non avesse abiurato le proprie idee.

Oggi forse saremmo più contenti se non fossero state inventate le armi nucleari, e rischiamo di andare incontro, come Ulisse, alla catastrofe. Ma c’è chi sostiene che senza la bomba atomica durante la guerra fredda sarebbe scoppiata la terza guerra mondiale.

Se non ho capito male mi sembra che Bonazzi a questi dilemmi risponda che siamo noi a doverci assumere la responsabilità di decidere cosa sia bene e cosa sia male: l’etica ci salverà se sapremo ritrovare in noi l’animale razionale e l’animale politico di aristotelica memoria.

Tuttavia guardando le aberrazioni del presente, con queste nuove stragi di bambini innocenti dopo quella di erodiana memoria rimango sconsolato e non resta che rispecchiarmi (si parva licet…) nelle parole di Goethe: habe… Philosophie… und leider auch Theologie durchaus studiert… ich armer Tor, und bin so klug als wie zuvor (ho studiato filosofia e purtroppo anche teologia da capo a fondo, io povero pazzo, e ora ne so quanto prima).

Pubblicato da: zoris | 20/04/2023

Ernesto Buonaiuti

Milano, 20 aprile 2023

Ernesto Buonaiuti

Nato a Roma nel 1881, ricorre oggi il 77° anniversario della sua morte avvenuta il 20 aprile 1946 (all’età di circa 65 anni).

Buonaiuti, sacerdote, vinse nel 1915 il concorso per la cattedra di Storia del cristianesimo all’Università di Roma. Per la sua adesione al movimento modernista fu tuttavia scomunicato dal S. Uffizio nel 1921. La sua colpa: pensare con la propria testa e avere il coraggio di manifestare le proprie idee.

Nel 1924 nuova scomunica da parte del S. Uffizio, messa all’indice dei suoi scritti, interdizione dall’insegnamento e perfino divieto di portare l’abito talare, (scomunica vitando che proibiva agli altri fedeli di frequentarlo).

Nel 1931 fu uno dei pochi  professori universitari (12 se non ricordo male) che persero la cattedra per essersi rifiutati di giurare fedeltà al regime fascista.

Dopo la fine della guerra quei professori ancora in vita che si erano rifiutati di giurare furono reintegrati nella cattedra, a eccezione di Buonaiuti che si vide rifiutare il reintegro dal governo italiano succeduto al fascismo a causa delle pressioni del Vaticano che aveva fatto inserire una norma ad personam nel concordato. Tale norma vietava che un sacerdote scomunicato potesse insegnare in una università italiana. Singolare pretesa della S. Sede che le conferiva il diritto di stabilire chi potesse insegnare in una università dello stato italiano. Lo stesso Osservatore Romano (22-23 aprile 1946) confermò che vennero esercitate pesanti pressioni sul governo affinché Buonaiuti non fosse reintegrato nella cattedra all’Università di Roma.

Quindi il povero Buonaiuti fu prima vittima del fascismo (rifiuto del giuramento), poi del Vaticano e poi perfino del pavido governo italiano che non ebbe il coraggio, quando ormai la guerra era finita e il fascismo sconfitto, di opporsi al divieto che era stato concordato tra il regime fascista e la S. Sede. Divieto che secondo me era ormai giuridicamente oltre che eticamente non più valido.

Un paradosso dato che del governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, facevano parte molti antifascisti come De Gasperi, Togliatti, Saragat, De Ruggiero (ministro dell’Istruzione).

Buonaiuti, privato della cattedra e dello stipendio, perseguitato dalla Chiesa della quale peraltro si considerava ancora fedele credente (aveva rifiutato l’offerta di una cattedra all’università di Losanna perché avrebbe dovuto aderire alla chiesa riformata), con i suoi libri messi all’indice, costretto a vendere parte della sua biblioteca, visse gli ultimi anni in gravi ristrettezze economiche.

Nel marzo del 1946 Buonaiuti si ammalò gravemente e perfino in articulo mortis gli fu rifiutata l’assoluzione dal cardinale Francesco Marmaggi perché non aveva accettato di abiurare le proprie idee: crudeltà tanto atroce (per un credente) quanto inutile. Si spense il 20 aprile 1946.

Non so se l’inferno esista, ma se esiste ritengo che tra i due non sia Buonaiuti colui che abbia meritato di finirci.

La Chiesa è per molti anni intervenuta in tutti i modi per togliere a Buonaiuti la cattedra in una università dello stato italiano, privandolo ingiustamente del suo diritto al libero insegnamento. Comportamento particolarmente riprovevole in quanto esercitato nei confronti di Buonaiuti che affermò sempre come per lui l’insegnamento fosse la vera esplicazione della sua missione sacerdotale.

Le idee di Buonaiuti erano giuste o sbagliate? Non lo so, in ogni caso anche se sbagliate potevano essere considerate al massimo errori ma non crimini. Ingiustificata quindi la persecuzione alla quale fu sottoposto. Egli era un professore di una università italiana, e l’università è per definizione il luogo della libera ricerca scientifica e storica. Né il S. Uffizio poteva essere considerato infallibile, come insegna il caso Galileo. Non va nemmeno dimenticata la sofferenza inflitta alla madre di Buonaiuti, persona semplice e osservante della religione, che non comprendeva che cosa mai il figlio avesse commesso di così grave.

Considerato che recentemente papa Francesco ha affermato che privare del lavoro una persona sia un peccato gravissimo, mi sembra sia ormai venuto il momento che la Chiesa riabiliti questo suo sfortunato e incompreso figlio.

Pubblicato da: zoris | 26/01/2021

Dialogo tra un agnostico e un cardinale

Agnostico: Cardinale, Lei è certo che dio esista?

Cardinale: Sì, sono assolutamente certo che Dio esiste.

A. Lei crede nel dogma dell’infallibilità del papa?

C. Sì certo, il dogma è stato solennemente proclamato nel 1870 dal Concilio Vaticano I.

A. Se il papa proclamasse ex cathedra: Non è certo che Dio esista, Lei gli crederebbe?

C. Ho capito: Lei mi vuole cogliere in contraddizione: se dico che gli crederei, sarei in contraddizione perché avevo detto di essere certo dell’esistenza di Dio; se dico che non gli crederei sarei in contraddizione perché avevo detto di credere nel dogma dell’infallibilità. Ma sono certo che un papa non dirà mai: Non è certo che Dio esista.

A. Mi fa piacere che Lei sia in grado di prevedere con certezza il futuro. Per favore mi potrebbe dire chi sarà il prossimo pontefice?

Pubblicato da: zoris | 10/04/2017

È più facile che un cammello…

È famoso quel passo del vangelo di Matteo che così recita: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli (Mt. 19, 24). Questa almeno è la traduzione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, ma non capisco per quale motivo la CEI si ostini a mantenere tale versione, tenuto conto che, come hanno fatto notare alcuni studiosi (cf. Marcello Craveri, La vita di Gesù, Feltrinelli 1966, pag. 176), si tratterebbe di un errore di traduzione. Precisamente uno scambio tra il termine κάμιλος  (kamilos, che significa fune) con il termine κάμηλος  (che significa cammello).

Come si sa i vangeli furono redatti in lingua greca. Ho provato a consultare il vocabolario greco – italiano di Lorenzo Rocci: registra il lemma κάμηλος (cammello), ma non contiene il vocabolo κάμιλος, che non ho trovato nemmeno nei dizionari online. Invece il Vocabolario della lingua greca di Franco Montanari (Loescher 1995) registra anche il vocabolo κάμιλος e lo traduce: corda, fune. Il fatto che non tutti i dizionari registrino tale vocabolo indicherebbe trattarsi di un termine abbastanza raro. Quindi in virtù del principio della lectio difficilior si dovrebbe privilegiare la versione fune rispetto a cammello.

Ma c’è anche la logica che dovrebbe indurre a scartare la versione cammello. Nel testo neotestamentario non mancano affermazioni paradossali, frasi proverbiali e altre affermazioni che sembrano contrastare il comune sentire (come per esempio: amare i propri nemici, porgere l’altra guancia, donare le proprie ricchezze ecc.).

Tuttavia un’affermazione sia pur paradossale deve avere una base logica. Faccio un esempio: se io voglio dire che è praticamente impossibile fare una certa cosa, potrei per esempio affermare: è come se io volessi aggottare con un cucchiaino una barca che sta affondando a causa di una grossa falla. Infatti effettivamente con un cucchiaino non ci riuscirei mai, tuttavia il cucchiaino per la sua forma è un oggetto in teoria idoneo a effettuare operazioni di travaso. Se invece di cucchiaino adoperassi termini come forchetta, coltello o addirittura cammello, i miei ascoltatori sarebbero come minimo stupiti dalla mia stravaganza.

Infine c’è un argomento in un certo senso teologico. Diversamente da quanto in genere si ritiene, Gesù non era contrario alla ricchezza in quanto tale, bensí al cattivo uso di essa. Siccome è impossibile che un cammello passi per la cruna di un ago, si dovrebbe ritenere che Gesù abbia affermato che nessun ricco possa entrare nel regno dei cieli. Ma nella storia della Chiesa non mancano ricchi canonizzati.

Anche nell’episodio di Zaccheo (Luca 19,  1–10) quando il ricco pubblicano dà la metà dei suoi beni ai poveri, Gesù non gli chiede di donarli tutti, e quando Zaccheo lo accoglie Gesù dice: oggi la salvezza è entrata in questa casa.

Concludendo, poiché ritengo che per la CEI non sia ammissibile che Gesù abbia fatto un’affermazione inesatta, penso che per motivi linguistici, logici e teologici, la traduzione fune sia preferibile a cammello.

 

 

 

Pubblicato da: zoris | 26/03/2016

Se stessi…

Una delle regole più stupide della grammatica italiana è quella secondo la quale il pronome quando è seguito dall’aggettivo dimostrativo stesso (o dalle forme flesse stessa, stessi, stesse) si può scrivere senza l’accento in quanto in questo caso non sarebbe possibile confonderlo con la congiunzione se.

Ma è una regola assurda: sono infatti molti i vocaboli che prendono l’accento per distinguerli dagli omofoni, per es. la (articolo e pronome) da (avverbio di luogo); di (preposizione) da (nome), ne (pronome o avverbio) da (congiunzione) etc.

Per coerenza quindi “io vado là” , “notte e dì”, “né caldo né freddo” si dovrebbero scrivere senza accento perché in questi casi non ci sarebbe ambiguità.

Mi sono divertito a consultare alcune grammatiche, e ne è venuto fuori un bizzarro florilegio di opinioni. Ne cito alcune.

Giampaolo Salvi e Laura Vanelli: Nuova grammatica italiana (il Mulino, 2004, p. 187): «: quando il riflessivo è accompagnato da stesso, nella grafia non viene indicato l’accento: se stesso».

Max Bocchiola e Ludovico Gerolin: Grammatica pratica dell’ITALIANO (Hoepli 1999, p. 145): «Le grafie accentate sé stesso e sé medesimo sono altrettanto corrette (sic)»

Cecilia Adorno: La grammatica italiana (Bruno Mondadori 2003, p. 70): non indica la regola, ma vi si trova questo esempio: lui giudica se stesso (senza accento).

Federico Roncoroni: Grammatica essenziale della lingua italiana, p. 18 la fa più complicata: «Il pronome può perdere l’accento quando è seguito da stesso: se stesso. Nell’italiano contemporaneo ciò avviene comunemente, ma i grammatici suggeriscono di conservare l’accento nelle forme plurali, perché se stessi e se stesse potrebbero essere confusi con se (io) stessi e se (egli) stesse

Pietro Trifone e Massimo Palermo: Grammatica italiana di base (Zanichelli 2007, p. 28): dicono che vale la pena di accentare sempre il pronome, ma nello stesso tempo affermano che le grafie se stesso e se medesimo sono accettabili, senza però spiegare perché non sarebbero allora accettabili per es. ne caldo ne freddo (senza accenti).

Per fortuna ci sono anche grammatici che ragionano, come Aldo Gabrielli che ne parla come «una delle regole fasulle più dure a morire» (Il piacere dell’italiano, Mondadori 1999, p. 111) e Luca Serianni che definisce la regola «un’inutile complicazione» (Italiano, Garzanti 1997, p. 589). Luciano Satta dopo aver osservato che la regola non è molto intelligente, conclude che l’unica cosa sensata sia accentare sempre il pronome (La prima scienza, D’Anna, p. 250).

Non è poi del tutto vero che le espressioni se stessi e se stesse non possano essere ambigue: per es. la frase «se stessi offendendo, sbaglierebbero a sorvolare» si potrebbe prestare a interpretazioni diverse. Anche il titolo di questo articolo risulta ambiguo se si osserva la bizzarra regola.

Purtroppo sembra che scrittori ed editori si siano affezionati alla regola, che paradossalmente è una delle più rispettate: non è raro imbattersi in un articolo di giornale in cui in una riga compare il accentato e qualche riga dopo un se stesso senza accento, quasi che l’autore volesse dire «avete visto che so la famosa regola che prescrive che se stesso non si accenta?».

Poi magari nello stesso articolo si trovano perle del tipo accellerare, complementarietà, italiani e non, un pò,, senonché, questo é vero, intravvedere, un mass media, la ministro è arrivata, lungo 30 mt., noi insegnamo, onde permettere, si è appropriato del bottino, il più intimo amico, più estremo, di questo ne ho parlato, un silos, ci sono due alternative, il giudice ha comminato un anno di carcere, Kwh (invece di kWh, un caso da Guinness dei primati: due errori in una sigla di tre lettere).

Pubblicato da: zoris | 28/01/2016

Bambini cristiani?

Qualche mese fa (8 agosto 2015, p. 5) il Corriere della Sera ha pubblicato una foto nella quale si vede un bambino dell’apparente età di 7 – 8 anni, con la seguente didascalia: “Un bambino cristiano accende una candela in una chiesa greco-ortodossa”.

Secondo me non esistono bambini cristiani, né ebrei, né musulmani, ecc. Ci sono bambini figli di genitori cristiani, ebrei, musulmani, ecc. È improprio etichettare un bambino con una fede che non ha ancora avuto l’opportunità di scegliere consapevolmente, attribuendogli quella dei genitori. Per rendersi conto dell’assurdità dell’affermazione basta considerare che nessuno direbbe del figlio di genitori atei che è un bambino ateo. Allo stesso modo sarebbe improprio definire bambini comunisti, bambini liberali, ecc. solo perché lo sono i genitori. E se uno è figlio di genitori professanti due diverse fedi, cosa facciamo? diciamo che è mezzo cristiano e mezzo musulmano? Un’evidente assurdità.

Solo quando diventa maggiorenne una persona dovrebbe scegliere se avere una fede e quale.

La circoncisione rituale di un neonato, che comporta una mutilazione irreversibile, non dovrebbe essere ammessa, come del resto è vietata l’infibulazione delle bambine.

Il battesimo cristiano, per quanto non comporti danni fisici poiché consiste in una spruzzata d’acqua sul capo del neonato, sarebbe anch’esso da scoraggiare perché poi la Chiesa rivendica una sorta di proprietà spirituale, come c’insegna il famoso caso Mortara: un bambino sottratto ai legittimi genitori ebrei per ordine di Pio IX con il pretesto che fosse stato battezzato da una domestica cattolica che lo aveva creduto in pericolo di vita.

Pubblicato da: zoris | 26/05/2014

All’italiana

Com’è noto il nuovo sovrintendente della Scala Alexander Pereira ha acquistato, senza averne i poteri, alcune scenografie dal teatro di Salisburgo, e rischiava l’annullamento del suo contratto con il teatro milanese. E’ stato tuttavia raggiunto un compromesso, piuttosto pasticciato, con il CdA della Scala e con un nuovo contratto di minore durata.

Su questa vicenda Andrea Bosco, nell’articolo “Cosa insegna il caso Scala” (inserto Milano del Corriere della sera in data 17 maggio scorso) scrive: «Quella che la Scala ha trovato sul pasticcio Pereira appare l’ennesima soluzione all’italiana».

Ancora una volta trovo quindi l’espressione all’italiana usata nell’accezione, purtroppo diventata comune, di cosa mal fatta, pasticciata, di atteggiamento furbesco o addirittura di comportamento disonesto: sembrerebbe che molti italiani provino gusto ad autodenigrarsi. E poi ci lamentiamo se all’estero siamo considerati poco seri, confusionari e con scarso spirito civico.

Intendiamoci: molto spesso è giusto, direi anzi doveroso, criticare ciò che viene fatto in Italia, ma senza autolesionismo e senza dimenticare le buone qualità che anche noi abbiamo; insomma di essere italiani, malgrado tutto, possiamo essere orgogliosi.

E dire che una volta l’espressione all’italiana aveva valore positivo: si pensi ai giardini all’italiana, esempi di perizia e buon gusto che ancora si possono ammirare in molte località. Per esempio nella guida Touring di Firenze si può leggere: Bòboli, grandioso giardino voluto dai Medici divenne esemplare della tipologia di giardino all’italiana: la variegata trama delle essenze vegetali, non spontanea ma ordinata razionalmente e scandita da siepi, viali e sentieri, vi è abbellita e ‘tradotta’ in una sorta di museo all’aperto con sculture, gustosi episodi architettonici, grotte con giochi d’acqua, complesse scenografie da cui si aprono deliziosi opposti panorami sulla città e sulla campoagna verso S. Miniato.

Io penso che un inglese non direbbe mai all’inglese con valore spregiativo: è noto anzi il motto right or wrong, my country (a torto o a ragione, è la mia patria). Inoltre in inglese si cerca di attribuire ad altri popoli comportamenti sgradevoli o imbarazzanti: per esempio to take French leave (andarsene alla chetichella), pardon my French (da aggiungere dopo aver detto una parolaccia o una bestemmia), French letter (è sinonimo di preservativo). I francesi comunque ricambiano: filer à l’anglaise (andarsene alla chetichella), capote anglaise (preservativo).

Non mancano tuttavia giornalisti che utilizzino l’espressione in maniera corretta. Giustamente Gabriella Ledda, sul Corriere del 16 maggio scorso, scrive: Viva gli sposi e viva il matrimonio all’italiana, elogiando il gusto del rito classico ed elegante “made in Italy” anche se adattato ai tempi moderni.

Desta comunque perplessità il fatto che sullo stesso giornale, a un giorno di distanza, la medesima espressione venga usata con significato opposto.

 

 

 

 

 

Pubblicato da: zoris | 14/03/2014

Pi Day

3,1415926535897932384626433…

to infinity… and beyond (Buzz Lightyear)

Oggi è il 14 marzo e si festeggia il cosiddetto Pi Day (pronuncia /pai ‘dei/), cioè il numero pi greco (simbolo π )  3,14… perché secondo il metodo americano di indicare le date si mette prima il mese e poi il giorno, quindi la data odierna è 3/14 (il metodo europeo non si potrebbe comunque usare perché i mesi sono solo 12).

Questo numero, che è il rapporto tra la circonferenza e il diametro del cerchio, è uno dei più importanti della matematica, è irrazionale e ha quindi infinite cifre decimali non periodiche. Non può quindi essere espresso come rapporto di due numeri interi, anche se la frazione 22/7 può essere assunta come valore approssimato.

Il π è stato calcolato nel 2009 fino 2,7 trilioni di cifre con un computer che ha impiegato 131 giorni.

Considerato che per i calcoli ordinari sono sufficienti in genere poche cifre decimali, ci si può chiedere: serve a qualcosa? No: ma è appunto questa la bellezza (oggi il termine è di moda) di una parte della matematica: è come la poesia, non serve a niente, ma saremmo spiritualmente più poveri se non ci fosse.

Eppure qualche utilizzazione ci può essere. Per esempio nei test di computer superveloci di nuova generazione: facendo calcolare alcuni miliardi di cifre del π, confrontandole con quelle già note si potrebbe avere una prova dell’affidabilità dei nuovi computer.

Ci sono poi alcuni utilizzi diciamo così ricreazionali. Per esempio è molto probabile che uno possa trovare la propria data di nascita in una certa posizione dello sviluppo del π. In questo sito inserendo la propria data di nascita nel formato ggmmaaaa, in una frazione di secondo viene indicato in quale posizione appare la sequenza. Per esempio la data di nascita di Albert Einstein 14031879 si trova alla posizione 74.434.701 (nota la curiosità: Einstein nacque il 14 marzo, un presagio?).

Un’altra applicazione che mi viene in mente potrebbe essere questa. Supponiamo che in una ditta, per ragioni di segretezza, i dipendenti siano obbligati a usare per il proprio computer una password di almeno venti cifre, evitando anche per sicurezza di annotarsele. Per ricordarla basterebbe fissarsi nella memoria la data di nascita del proprio personaggio preferito, (solo otto cifre e comunque rintracciabili in caso di dimenticanza)  e usare come password le venti cifre che nel π seguono tale data.

Qualche altra curiosità sul π.

Secondo l’Antico Testamento il suo valore sarebbe 3 (Primo libro dei Re 7, 23).

L’anno prossimo ci sarà uno speciale Pi Day, in quanto la data nel formato 3/14/15 è costituita dalle prime 5 cifre del π.

In ogni campo della matematica prima o dopo fa capolino questo numero, anche in problemi che sembrano non avere nulla a che fare con il cerchio. Un esempio è il famoso ago di Buffon, naturalista e matematico francese del 700: si può calcolare un valore approssimato del π buttando diverse volte in maniera casuale un ago o asticella su un pavimento a strisce (per es. un parquet). Se conto il numero di volte che ho buttato l’ago, lo divido per il numero di volte che l’ago ha intersecato una striscia e moltiplico per 2 ottengo un valore del π. In teoria più è grande il numero di tentativi e più approssimato sarà il valore ottenuto. Una simulazione al computer si trova qui.

Qual è il miglior modo di festeggiare il Pi Day? Anche per chi non ama la matematica: trasformarlo in Pie Day e mangiarsi una bella Apple Pie!

Auguri.

 

 

 

 

 

Pubblicato da: zoris | 15/08/2012

Complementarità

Capita sempre più spesso di trovare, anche in articoli di autorevoli giornalisti, il vocabolo “complementarità” scritto nella forma errata “complementarietà” (forse per una falsa analogia con il termine “contrarietà” che è invece corretto).  E, analogamente, “elementarietà” al posto del corretto “elementarità“.

Eppure la regola è semplice. I sostantivi derivanti da aggettivi terminanti in –io, prendono la terminazione –ietà, quelli derivati da aggettivi terminanti in –e prendono la terminazione –ità.
Quindi, per esempio, da bonario, saltuario, vario, contrario, notorio, sazio ecc. si ottengono: bonarietà, saltuarietà, varietà, contrarietà, notorietà, sazietà.
Invece dagli aggettivi complementare, elementare, morale, corale, regale ecc. si ottengono: complementarità, elementarità, moralità, coralità, regalità.
Uniche eccezioni a me note: ebrietà (o ebbrietà) da ebbro e solidarietà da solidale (che tuttavia vere eccezioni non sono in quanto si fanno risalire ai termini desueti ebrio e solidario).
Pubblicato da: zoris | 06/11/2010

Il tedesco è più preciso?

Tempo fa, in un articolo pubblicato dal Corriere della Sera (“Apri il dizionario, troverai l’anima. Dei tedeschi”) Isabella Bossi Fedrigotti affermava che «la lingua tedesca… è infinitamente (sic!) più precisa dell’italiano».
Io le scrissi mettendo in dubbio tale affermazione, con gli argomenti qui di seguito esposti, ma la giornalista, invece di confutarli con controargomentazioni, mi rispose che si era limitata a esporre le teorie del libro “Piccolo viaggio nell’anima tedesca” di Vannuccini e Pedrazzi, e mi invitava a rivolgermi alle due autrici. Cosa che feci, ma le due autrici, non so se per mancanza di cortesia o di argomenti, non mi risposero.
In realtà però la giornalista non si era limitata a esporre le teorie delle due autrici, ma in un certo senso le aveva fatte proprie. L’articolo infatti iniziava così:

«La lingua, si sa, è il primo e più immediato specchio di un popolo e, a chi la sa leggere, fedelmente ne restituisce i tratti, lo spirito, l’ identità. Nessuna meraviglia, dunque, se la lingua tedesca, grazie ai circa centomila vocaboli in più dei quali dispone, è infinitamente più precisa dell’ italiano: è risaputo, infatti, che, al di là dei luoghi comuni, è appunto la precisione – o la sua mancanza – che fa la differenza tra tedeschi e italiani.»

e solamente nel seguito dell’articolo veniva citato il libro.
Se un giornalista scrivesse: «…poiché com’è noto padre Pio aveva la facoltà della bilocazione…» non potrebbe poi rispondere alle eventuali obiezioni: «l’ho letto nell’Osservatore Romano». Da una professionista come la Bossi Fedrigotti non me l’aspettavo.
Ma la lingua tedesca è veramente più precisa dell’italiano? Vediamo.
Nell’articolo si afferma che «noi dobbiamo andare a piedi, in auto, in treno o in nave, sempre usando il medesimo verbo, mentre loro hanno a disposizione due termini diversi, «gehen» e «fahren» a seconda se procedono con le proprie gambe oppure trasportati da un mezzo.»
Questo esempio non dimostra nulla: è noto infatti che ogni lingua possiede caratteristiche e peculiarità che la differenziano dalle altre, e benché possa accadere che una lingua usi lo stesso vocabolo dove un’altra ne usa due, ciò non significa che in altri casi non possa invece accadere il contrario. Per esempio ai due vocaboli italiani sonno e sogno corrisponde l’unico vocabolo spagnolo sueño: signfica che l’italiano è più preciso dello spagnolo? Certamente no: in italiano diciamo io sono avvocato, io sono stanco, usando lo stesso verbo per indicare sia una condizione duratura sia una transitoria, mentre lo spagnolo in questo caso è più preciso e dice soy abocado (condizione duratura), ma estoy cansado (condizione transitoria).
Tornando all’esempio addotto per dimostrare come il tedesco sarebbe più preciso, ricordo che anche in italiano invece di «andare in auto, in treno» posso «viaggiare in auto, in treno». Analogamente al posto di «andare in nave, in aereo» posso usare i verbi «navigare» e «volare».
Nell’articolo si aggiunge: «E, come se non bastasse, per l’andare a piedi possono (i tedeschi) ricorrere anche a «schreiten», «wandern» e «laufen» a seconda del tipo di strada che percorrono e del ritmo dei loro passi». Come se l’italiano non avesse i verbi «incedere, vagabondare, correre» che appunto corrispondono ai tre verbi tedeschi; senza contare tutti gli altri vocaboli che possono esprimere i diversi tipi di andatura, per esempio: camminare, vagare, avanzare, pellegrinare, errare, gironzolare, girare, girovagare, girellare, ire, arrancare, ambulare, deambulare, passeggiare, procedere, marciare, saltellare, trascinarsi, caracollare, scorrazzare, trotterellare e così via.
Né è esatto affermare che gehen in tedesco si possa usare solo per l’andare a piedi. Le frasi seguenti sono perfettamente lecite in tedesco:
“Dieser Zug geht nur bis Zürich” (questo treno arriva solo fino a Zurigo);
“Wann geht das nächste Flugzeug nach Frankfurt?” (quando parte il prossimo aereo per Francoforte?)
Tra l’altro in questi due esempi il tedesco usa lo stesso verbo dove l’italiano ne usa due: in questo caso dunque l’italiano è più preciso!
E si possono fare altri esempi:
“Im Fasching gehe ich dieses Jahr als Indianer” (quest’anno a carnevale mi travestirò da indiano)
“Geh nicht an meinen Computer wenn ich nicht da bin” (non usare il mio computer quando non ci sono)
“Der Tisch geht nicht durch die Tür” (il tavolo non passa dalla porta)
“Das Wasser geht mir bis zum Knie” (l’acqua mi arriva al ginocchio)
Come si vede in questi esempi al generico verbo gehen usato in tedesco corrispondono in italiano i verbi specifici travestirsi, usare, passare, arrivare, con buona pace dell’asserita maggiore precisione del tedesco.
Faccio un altro esempio. Prendiamo i due verbi italiani “attendere” e “aspettare”. Com’è noto “attendere” implica il gradimento di ciò che si attende, per es. “la mamma attende il ritorno del figlio”; Dante, quando prega Virgilio di concedergli di ascoltare da Ulisse il racconto della sua avventura, dice: «maestro, assai ten priego / e ripriego, che il priego vaglia mille, / che non mi facci dell’attender niego» (Inf. XXVI, 65-67); Madama Butterfly sospirando il ritorno dell’amato canta: «e non mi pesa la lunga attesa». Al contrario si “aspetta” desiderando però che l’oggetto aspettato non venga, per es. «chi la fa l’aspetti!»; «c’era da aspettarselo»; «la moglie attende l’amante perché non aspetta il marito»; Manzoni quando descrive l’incontro di don Abbondio con i bravi: «Il curato, voltata la stradetta, … vide una cosa che non s’aspettava, e che non avrebbe voluto vedere.» (Promessi sposi, cap. I). Anche se non sempre lo stesso Manzoni rispetta la distinzione di significato tra i due verbi: quandoque bonus dormitat Homerus.
In tedesco invece lo stesso verbo “erwarten” può essere usato sia che l’oggetto sia desiderato o no; per es. «das war zu erwarten» (c’era da aspettarselo), ma «ich kann es kaum erwarten» (non vedo l’ora di…).
Si potrebbe obiettare che non tutti (anche tra gli scrittori) rispettano la distinzione tra aspettare e attendere, e che l’uso percepisce ormai i due verbi quasi come sinonimi, uso ormai accolto da molti dizionari sulla base del discutibile principio: error communis facit ius. Ma allora, reciprocamente, si deve riconoscere che non tutti i tedeschi adoperano i vocaboli in più che la loro lingua avrebbe rispetto all’italiano.
Ortega y Gasset afferma che in arabo ci sono centinaia di vocaboli per designare il cammello: dobbiamo per questo dire che l’arabo è più preciso?
Quanto al numero di vocaboli delle maggiori lingue europee, Beppe Severgnini (nel libro “L’Inglese”, BUR 1997, pag. 33) fornisce questi dati: per l’inglese, l’Oxford English Dictionary avrebbe circa 500.000 lemmi; il tedesco avrebbe 185.000 vocaboli, l’taliano circa 150.000, il francese meno di 100.000. Quindi il tedesco avrebbe solo 35.000 (e non centomila) vocaboli in più dell’italiano, ma ne avrebbe oltre trecentomila meno dell’inglese; se anche fosse vero, credo che nessun tedesco accetterebbe l’affermazione che l’inglese sarebbe più preciso
Peraltro a mio parere la precisione non è delle lingue, ma delle persone che quelle lingue adoperano.
E’ senza dubbio una trovata efficace l’incipit del libro di Vannuccini e Pedrazzi, dove si afferma che una parola come Schadenfreude non c’è nelle altre lingue. In realtà in italiano si potrebbe tradurre gioia maligna. Gli inglesi lo traducono malicious pleasure, i francesi joie maligne, e mi sembra che più o meno siano la stessa cosa.
Le due autrici sostengono che le altre lingue non hanno una parola come Schadenfreude perché viene tradotta con due parole invece di una, ma in realtà anche il vocabolo tedesco è formato dalle due parole Schaden e Freude.
Mi viene subito in mente un controesempio: cotone in tedesco si dice Baumwolle, vocabolo composto da due parole Baum (albero) e Wolle (lana): dobbiamo per questo dire che il tedesco non ha una parola per cotone? Forse diremo che l’inglese non ha una parola per dire innamorarsi perché ne usa quattro: to fall in love? Oppure che i francesi non hanno una parola per dire quadrifoglio perché dicono trèfle à quatre feuilles? Una palese assurdità.
Inoltre ogni lingua può avere una peculiarità in un certo ambito che la rende più flessibile di un’altra, ma non si tratta di superiorità, bensì di diversità. Severgnini (nel libro citato) afferma che l’inglese è “geniale”, giudizio senz’altro condivisibile, a patto che si dica che anche l’italiano è geniale, come pure il tedesco, il francese, e così via: ogni lingua infatti è geniale in un ambito diverso.
Il tedesco per esempio ha una grande facilità nella creazione di parole composte, anche da più di due elementi, che evita l’appesantimento derivante dall’uso di molte preposizioni, ma l’italiano ha una grande facilità nella creazione, con semplici suffissi, di accrescitivi, peggiorativi, diminutivi, vezzeggiativi; per es. da uomo posso derivare omino, ometto, omicino, omiciattolo, omettino, omettaccio, omone, omaccio, omaccino, omaccione, omarino, omuncolo. In tedesco per esprimere le stesse sfumature di significato (a parte “ometto” che posso rendere con Männchen) devo ricorrere a locuzioni oppure a vocaboli con radice diversa (per es. kleiner Mann, Dreikäsehoch, Knirps, Strichmännchen, Bulle, ecc.)
Alla luce di quanto sopra, mi sembra quanto meno azzardato affermare, come fa la giornalista, che la lingua tedesca sia «infinitamente più precisa dell’italiano»: in ogni caso quell’infinitamente è di troppo.

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